saggi

Miracolo a Milano

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Domus n. 937, 6 aprile 2010

Mentre osservavo un certo edificio di Milano ho avuto una strana sensazione. Ad impressionarmi forse era soltanto una suggestione, una distorsione percettiva che faceva apparire il fantasma di un altro edificio. Certo non potevo far finta di niente e non preoccuparmi di questi fantasmi. Mi rendo conto della difficoltà di portare agli altri ciò che ho visto in questa  ‘seconda visione’, e pure, a causa del ripetersi insistente dell’intrusione di immagini provenienti da altri luoghi, incominciavo a dubitare della mia  percezione della realtà. D’altra parte, questa situazione così particolare in cui avvenivano delle sovrapposizioni tra luoghi diversi mi ha indotto a riflettere su certi pregiudizi circa la natura dei luoghi, sui meccanismi attraverso i quali riconosciamo una volta per tutte alcune singolarità e se sia proprio necessario un isolamento geografico per produrre le identità.

Come minimo mi capitava di vedere la Valtellina in qualche edificio di Luigi Caccia Dominioni, o addirittura la Stoccolma di Asplund nell’eleganza di un suo edificio di Piazza Sant’Ambrogio. Per non parlare dei clinker adottati, si dice importati, da Giovanni Muzio per rivestire certi edifici severi che ti fanno sentire ad Amburgo. Il Planetario di corso Venezia, l’arco e la volta a botte del passaggio su via Salvini di Pietro Portaluppi mi trascinavano dentro il classicismo nordico svedese. La casa in via Leopardi di Vico Magistretti con il suo mite espressionismo da scuola di Amsterdam mi portava in Olanda. Anche la Torre Velasca, un elemento intoccabile dell’identità milanese, con le sue risonanze con le guglie del duomo, mi sembrava appartenere alla Le Havre di Perret e questo mi produce ancora una certa agitazione. Per non parlare della romanità, del resto esplicita e programmatica, dell’Arengario. Il riferimento più sottile alla biblioteca di Viipuri di Aalto nel Padiglione d’Arte Contemporanea di Ignazio Gardella potevo disconoscerlo in qualche modo, ma intanto le Höfe della Vienna Rossa si materializzavano nel quartiere popolare ‘Alla fontana’ di Griffini e Manfredi. E così via.

Riporto degli esempi scelti a caso tra alcune opere architettoniche più o meno recenti per non parlare della vastità delle presenze dell’altrove in tutta l’architettura della Milano eclettica a cavallo tra otto e novecento, e pure delle possibilità altrettanto considerevoli di avere abbagli di questo genere travisando le opere dei secoli precedenti.

Come spiegare le intrusioni di queste fantasie associative?

Molti antropologi culturali contemporanei hanno respinto i primi modelli di etnografia, che trattava le culture locali come confinate e isolate. Questi antropologi sono tuttora interessati ai differenti modi in cui le persone che vivono in luoghi diversi agiscono e comprendono le loro vite, ma ritengono spesso che non sia possibile comprendere tali modi di vita occupandosi esclusivamente del contesto locale. Anche per le specie vegetali è così. Gilles Clément dice che la diversità biologica “deve la sua esistenza all’isolamento geografico delle specie. Il vento, gli animali e soprattutto l’uomo e le sue macchine rompono gli isolamenti e mettono in contatto specie prima separate. Nasce un nuovo paesaggio planetario che mette in crisi la diversità e allo steso tempo fa nascere associazioni, unioni e nuove ibridazioni”. Basterà?

Questa affermazione risolve solo in parte il problema dei fantasmi e dello sdoppiamento percettivo che ha finito per causare l’ingerenza di un luogo in un altro. Forse la spiegazione del fenomeno è nel vedere in un luogo reale, ad esempio la città di Milano, l’insieme di tanti luoghi e questo mondo onirico diventa reale se ammettiamo che l’identità non è altro che il sapore della miscela risultante da tante migrazioni.

La nuova forma della casa

per ‘il Sole 24 Ore’, 01 aprile 1998

Negli anni recenti la parola inglese uncanny ha dominato la riflessione sulle difficoltà dell’architettura ponendo l’accento sul disagio dell’abitare. L’idea dell’esilio, dello smembramento, dell’alienazione, della passività dell’abitante come cyborg domestico, in breve l’idea della de-costruzione del modello dell’alloggio razionale e dell’ottimismo che stava alla base del modernismo, era riassunta dalla metafora rappresentata da questa parola di origine freudiana che potremmo tradurre con ‘perturbante’.

In un saggio del 1919, ‘Il perturbante’, Freud operava una decostruzione ante litteram del concetto di familiare mostrando in quali circostanze ciò che ci è consueto e domestico possa diventare perturbante e spaventoso.  Dimostrando, come nella favola di cappuccetto rosso, che questa perturbazione è prodotta da ciò che ha subito una rimozione e poi è ritornato.  Anche se non condividessimo del tutto gli aspetti inquietanti della nozione freudiana possiamo dire che nel suo insieme il nostro rapporto con la casa – il suo aspetto, gli oggetti, gli arredi -  oscilla tra il desiderio del riconoscimento delle cose consuete e delle abitudini coltivate nel tempo, e l’attrazione di affrontare il nuovo, lo sconosciuto l’inquietante. Il sublime contemporaneo è anche un tentativo di evadere dalla libertà condizionata della domesticità privata, o della società urbana, e rappresenta nell’ estetica contemporanea la preminenza data all’intensità delle sensazioni, in opposizione alla nozione di armonia propria della cultura classica. Così ci rendiamo conto che l’ambiente domestico è continuamente attraversato da novità, invaso si può dire, dall’esterno, da beni di consumo, cibo, merci, gadgets, attrezzature di vario tipo. Se la razionalità dell’alloggio del novecento, con le classiche distinzioni giorno-notte, interno-esterno, servente-servito è stata man mano oggetto di un lavoro decostruttivo che ha indebolito tali opposizioni a favore di un uso più erratico degli spazi domestici per cui non è più proibito mangiare in cucina, lavorare in camera da letto o in soggiorno, guardare la televisione dappertutto e così via – possiamo notare che una certa fase ‘caotica’ dell’organizzazione dello spazio domestico rappresentata emblematicamente dal modello del loft americano sta per finire.

Divenuto presto celebre, il fenomeno del loft si è diffuso in tutti quei luoghi (non solo dove la presenza di vecchi edifici industriali lo ha consentito) senza che si sentisse il bisogno di particolari teorizzazioni, anche se possiamo vedere nello sviluppo del fenomeno dei sintomi particolari. Ad esempio quello della labilità del confine tra l’idea della casa e la nozione più estesa di abitabilità.

Il desiderio di considerare abitabile tutto il pianeta, e il reale incremento di questa possibilità favorita dal mondo contemporaneo, ha limitato la necessità di una precisa identificazione dell’abitare con la casa. Se lo sviluppo tecnico scientifico ha reso possibile una maggiore abitabilità in senso estensivo, d’altro canto possiamo notare come il soggetto tenda a reagire, a fare resistenza al potere sempre più forte rappresentato dalla stessa organizzazione del mondo contemporaneo cercando di sottrarsi a un’identità stabile e definita, cercando di assumere tante maschere e di vivere la pluralità. Insomma sembra che per dare un senso all’esistenza, l’essere non debba avere quei caratteri di stabilità, immutabilità, definitività che la casa tradizionale ha rappresentato così simbolicamente. Nei loft troviamo del resto tutti gli elementi della casa tradizionale ma come frammenti, come tracce liberamente disposte e continuamente capaci di produrre nuovi significati. Al loft si può rimproverare di aver rappresentato una risposta mimetica nei confronti del caos della società urbana: è un fenomeno molto americano e segnato da una spinta alla secolarizzazione e all’abbandono dei rituali domestici in quanto tali. Potremmo vedere nel loft la manifestazione di una prima fase dello smembramento dell’ordine schematico e razionalista dell’alloggio moderno.

Abbiamo vissuto anche una fase in cui l’avvento delle nuove tecnologie informatiche, della possibilità del lavoro a domicilio, del dominio pervasivo delle immagini televisive e dei suoni emessi dagli apparecchi hi fi, delle innumerevoli superfetazioni che circondano l’infanzia dei nostri bambini hanno trasformato le nostre case in qualcosa di ignoto.

L’entusiasmo per i nuovi mezzi è stato espresso con chiarezza da un architetto giapponese come Toyo Ito, per il quale si devono fare ‘edifici che servano a integrare le persone, la città e i mezzi di informazione’. Ora, volendo accennare alla nuova forma della casa, a quanto possiamo o vogliamo predire per gli anni futuri, dobbiamo per lo meno evitare di assumere un ingenuo atteggiamento futuristico. Quello che è successo in queste destrutturazioni, ha coinvolto anche il senso del tempo, che non possiamo più rappresentare con il simbolo della freccia direzionata in avanti. Possiamo parlare del presente soltanto, rispettivamente nella forma della memoria e dell’attesa. Possiamo avere una expectatio per ciò che è a venire. In questo senso possiamo lavorare, adoperarci perché accadano certe cose piuttosto che altre. E in un questo senso cercherò brevemente di dilatare il mio presente. Insomma mi pare che lo sforzo che qualcuno sta per intraprendere sia orientato a ricercare i contenuti di una seconda fase del nostro rapporto con il mondo informatizzato dove più che rispecchiare, come si è fatto, l’alta velocità dell’ambiente mediatizzato della metropoli assimilando l’ambiente domestico all’universo fittizio della città simulata, si cerca di esplorare, al contrario, la possibilità di un rallentamento.  Il nuovo spazio domestico presenterà una minore iconicità degli oggetti, sarà più protetto dalla pervasività delle immagini a favore di un ambiente dove la luce, il suono, la materia, la natura svolga un compito costitutivo prevalente. La prossima casa che vorrei avere dovrebbe permettermi di vivere con qualcuno, lavorandoci meglio, vivendoci anche da vecchio o da ammalato. Dovrebbe anche essere disposta a ospitare qualcuno che viene, proteggermi dal normale assalto della immagini, darmi l’esperienza delle luci della giornata. In buona sostanza dovrebbe, per citare un celebre titolo di Henry Bergson comprendere Materia e Memoria.