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As Art

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in Architecture as Art. XXI Triennale Esposizione Internazionale21st Century. Design After Design Architecture as Art. Mostrare l’architettura

Alcune belle mostre d’arte sono state avvantaggiate dall’indebolimento delle convenzioni museografiche e probabilmente è arrivato il momento anche per l’architettura di provare a mettere in discussione la convenzione di lasciare la cosa stessa dell’architettura fuori dal museo accettando di far vedere solo le sue rappresentazioni. Nella mostra di Pirelli HangarBicocca cercheremo di fare il nostro esperimento agendo in modo da stimolare una comprensione più autentica dell’opera architettonica – un fatto abbastanza difficile volendo attirare il pubblico dalla nostra parte – e, se possibile, sviluppando i suggerimenti delle sperimentazioni condotte nel campo museografico da operatori come artisti, registi, critici, architetti, ecc., sperimentazioni che implicano, come sappiamo, la sospensione di alcuni standard museografici stabiliti. La revisione in corso dei canoni estetici della museografia, oltre al rinnovo delle regole del vecchio dispositivo museale, ha effettivamente avviato un movimento per il superamento dello statuto tradizionale dell’opera d’arte, per cui, ad esempio, è ammesso in certi casi mettere tra parentesi, ovvero sospendere, alcune convenzioni circa l’idea di originalità, di copia, di facsimile, ecc. Essendo l’architettura nel nostro caso l’oggetto del trattamento museografico bisogna fare in modo che l’esperimento non contrapponga l’attività fattuale degli architetti a un tipo di attività da presentare come immaginaria. Al contrario attraverso l’operazione museale si dovrà comprendere meglio qual è lo stato dei rapporti che intercorrono fra il lavoro di concezione e il lavoro di realizzazione in questo campo. O, in altri termini, e per usare con molte cautele il linguaggio della decostruzione come ha fatto Hubert Damisch, dovremo trarre vantaggio dall’operazione museale per mettere in dubbio l’opposizione acquisita per via accademica, su cui poggiano tante false idealità, fra l’arte di edificare e l’edificio, tra l’architettura e la costruzione. E questo non per confonderle o ridurre l’una all’altra e neppure per far sì che all’ordine silenzioso, quello del costruire, si sovrapponga quello, retorico, dell’architettura. In ogni modo la mostra dovrà approfittare del fatto che il museo, nella misura in cui sottrae gli oggetti che accoglie al loro contesto e li svincola dalla loro funzione pur senza impedirla nel nostro caso tesse fra loro nuove relazioni, il cui primo effetto è quello di spostare il problema da quello della costruzione e della realizzazione verso un’altra dimensione, che in questo caso sarà la formazione di una mappa di questi “materiali”.

Dall’arte pubblica, alla performing art, alle installazioni, alla museografia, alle costruzioni, al paesaggio gli sconfinamenti dei diversi campi operativi tra architetti, designers, artisti, paesaggisti, sono diventati abituali. Intervenendo in un contesto di questo tipo la mostra della XXI Triennale impegnata nel rischioso compito di esibire l’artisticità dell’Architettura si prefigge di praticare uno “sconfinamento” particolare per lo meno nella consuetudine delle mostre di architettura – che consiste nel mutuare dalle mostre d’arte l’obbligo di far vedere le opere in praesentia. Un campione al vero scelto da un architetto e da lui categorizzato come opera d’arte: questo è il presupposto per mettere in moto la nuova idea museografica. Per procedere lungo questa via si dovrà avere a disposizione un ambiente espositivo appropriato, già di tipo museale, che sia adatto a suscitare la comprensione dell’architettura come fatto artistico. L’idea è di enfatizzare un dispositivo spaziale che spinga i visitatori a guardarla con uno sguardo diverso dal solito, uno sguardo per così dire “incantato”, confidando sull’effetto persuasivo della presenza di un’istituzione museografico espositiva non dedicata all’architettura come Pirelli HangarBicocca. Perciò evitando di rimediare all’assenza della “cosa reale” con surrogati quali disegni, testi, foto, modellini, o altro come si fa di solito – negli spazi di Pirelli HangarBicocca vengono esposti campioni “al vero” cercando di avviare il pubblico alla scoperta della loro artisticità peculiare senza impedire ai visitatori di avvicinarsi a una presenza architettonica a portata di mano. Lo spazio museografico, quello della black room dell’area Shed, è privo delle solite impalcature allestitive che troviamo nelle

mostre di architettura giacché le quattordici opere realizzate per la mostra si offrono senza interposizioni ai visitatori componendo una sorta di atlante rivolto a illustrare temi e soggetti che enunciano le responsabilità del progetto del XXI secolo, una pretesa indispensabile per tracciare la bozza di un Atlante. Questa bozza si traduce in una disposizione di cose nello spazio unitario del parterre che allude all’inizio di nuove azioni e modi di essere. La mappatura, che esclude in linea di principio una gerarchia, un centro e un ordine di significazione, risponde perciò alla volontà di offrire un’enciclopedia aperta. L’utopia della mostra consiste nel ritenere possibile un campo di collegamenti ipertestuali esaltando un principio di molteplicità come sistema aperto, liberamente e infinitamente percorribile. Nelle scelte di un campione ristretto di opere presentate come modelli di una buona pratica c’è l’ottimismo di credere che da qualch e parte, nel deposito del panorama mondiale, si trovino le risorse di senso di cui abbiamo bisogno e che sia possibile scorgere in determinati codici linguistici la promessa di ristabilire il nesso necessario tra architettura e società, architettura e città, architettura e ambiente. Se non è possibile, o augurabile, esibire una teoria come fondamento estetico unificante di una mostra, l’intenzione resta quella di offrire esempi illuminanti di grammatica e di sin tassi, poiché una democrazia senza lumi è nel migliore dei casi una giungla insensata. I campioni al vero realizzati per la Triennale, esercizi di linguaggio poetico architettonico, si riferiscono a buone pratiche di progettazione all’interno di un determinato campo di competenza. In effetti l’idea della mostra nasce dalla formulazione di alcune domande attorno a situazioni e problemi decisivi per l’architettura dei nostri giorni e gli architetti invitati sono chiamati a rispondere con proposte significative, dove la grammatica e la sintassi certificano la verità di una visione, in modo da trattare le soluzioni come gli esempi che vediamo nei dizionari. E in effetti alle persone invitate è stato chiesto di trovare il corrispettivo architettonico ad alcune voci di un dizionario in modo di produrre, se non proprio un pattern language come è stato teorizzato da Christopher Alexander, per lo meno alcune dimostrazioni a proposito della verità di alcune parole chiave come: Porch, Entrance, Rehabilitation, Roof, Shelter, Pavilion, ecc., figure da usare come dei grimaldelli per esprimere dei pensieri architettonici riguardo i nuovi paradigmi come, ad esempio, il nuovo paradigma ecologico, o come il pensiero-guida che indirizza lo sconfinamento dell’architettura nella disciplina paesaggistica o che propone una nuova idea di spazio pubblico “attivo” e “partecipato”, e anche per indicare come utilizzare un materiale che già esiste per altri scopi, o per riflettere sui due spazi sovrapposti che caratterizzano il vissuto dell’uomo contemporaneo e il suo modo di abitare il mondo: lo spazio dei luoghi e lo spazio dei flussi. O ancora altri lemmi come Addition, Restoration per riflettere sul destino di chiunque abiti una società che rende cronica e generalizzata la condizione di precarietà. Con le parole Sharing, Sidewalk si chiede di verificare come con la parola “architettura” si debba intendere realmente la modalità con cui l’uomo abita il mondo in quanto essere vivente. Un mondo dunque continuamente modificato dalle impronte dell’uomo, dal suo abitare in senso generale – che si costruisca o meno. Oppure Plan, Ground, se si pensa che un progetto paesaggistico sia un precedente o una fase della creazione di un quartiere.

O ancora Bricolage, Sustainability, dove la nozione di “bricolage” è utilizzata in architettura per significare un nuovo modo di costruire dopo il fallimento del progetto totale progressista appartenente alla modernità.

Oppure Home, Meeting, per invitare a riflettere a partire dall’esempio di “Home-for-All”, il tentativo di offrire uno spazio di incontro e distensione a coloro che avevano perso la casa nello tsunami.

Garden, Pool, poiché si è diffusa l’idea che, a causa del nostro modo di abitare, l’impronta dell’uomo sulla terra abbia assunto caratteri distruttivi tali da mettere in forse la stessa sopravvivenza del pianeta.

Inside, Outside, per esplorare l’intersoggettività, e per come una persona, in un determinato momento, percepisca contemporaneamente sé stessa, guardi gli altri e sia osservata da questi.

Abitare il costruito

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Le riflessioni sull’abitare contenute nei saggi di Roberto Bianche ed Enrico Garlaschelli – uno architetto, l’altro filosofo – mi incoraggiano ad approfondire alcuni temi in riferimento alle attuali discussioni sul costruito – quella sindrome del ‘cemento’ diventata malauguratamente una delle questioni più dibattute ai nostri giorni. A proposito invece dell’abitare va riconosciuto il merito alle riflessioni filosofiche e architettoniche degli ultimi decenni del secolo scorso citate nel libro per aver operato al fine di modificare molte idee stantie sull’abitare. La lettura dei saggi di Abitare il costruito , poi, mi induce a risalire l’onda di quei pensieri, a ripensare il senso di quelle attenzioni sull’ ‘abitare e costruire’ e guardare alla direzione presa dalla discussione negli ultimi tempi. Pertanto non va dimenticato il fatto che l’impronta brutalmente produttivistica dell’edilizia moderna – vale la pena di ricordarlo – è stata superata anche grazie all’influsso di un pensiero capace di rimettere in discussione i compiti dell’architettura. Ripensando a quel dibattito così fervido di scritture architettonico-filosofiche sulla questione della tecnica, della massificazione , dell’anomia sociale, ecc. possiamo confermare, a distanza di qualche decennio, l’importanza del monito heideggeriano rivolto nel celebre ‘costruire, abitare, pensare’ a partire dal quale la cultura architettonica si è adoperata a favore di un abitare rispondente alle differenze dei modi dell’essere. Da allora sono scomparse quasi del tutto le teorie deterministiche sull’edilizia di massa, non si sono più costruiti i ‘casermoni’ e sono stati abbandonati gli eccessi della produzione di serie tipica del tardo modernismo. Ugualmente decisiva è stata l’indicazione per cui nella nostra mente si è fissata in quei momenti l’idea che l’uomo riesce ad abitare solamente mediante il costruire, da cui sembrava di poter stabilire l’imprescindibilità della mediazione architettonica. Ma, come proverò a dire, è proprio questa idea dell’imprescindibilità e che cosa sia questo ‘costruire’ ad aver bisogno di altre precisazioni in quanto appena avanziamo col discorso si presentano delle aporie a causa delle quali sperimentiamo sovente l’impossibilità di dare risposte precise e coerenti. Spesso ci si trova a scegliere tra soluzioni opposte, tutte apparentemente valide. Per quanto la si ritenga imprescindibile, l’architettura – in quanto necessità di costruire per abitare – di fatto non viene dominata dall’architetto nel suo senso più ampio poiché egli non dispone di una sovranità indiscussa sulle sorti dell’ambiente fisico. Quando discutiamo su come dovrebbero essere le nostre case pensiamo che gli abitanti debbano essere introdotti nell’architettura in quanto riteniamo che gli esseri umani siano innanzitutto fuori dall’architettura. Questa rappresentazione non coglie l’essenza dell’architettura ‘poiché per l’uomo non esiste qualcosa che si chiama architettura separato dall’essere umano ’, se questo abita, e non può che abitare il mondo. Poiché ciascuno sta da qualche parte e abita in qualche modo, possiamo dire che tutti stanno già nell’architettura e alla lettera nessuno avrebbe bisogno di esservi introdotto, come se dovesse essere trasportato, trasferito da un altro luogo. Se le cose stanno così, allora si potrebbe vedere in tutti gli uomini la capacità di farsi un riparo, e in un certo senso questo può essere tanto più vero per quelle popolazioni che autorealizzano i propri insediamenti entro un ethos e una tradizione stabilita. Ma da noi la gente non si costruisce la casa con le proprie mani e tanto meno è in grado di fare da sé gli edifici più importanti. Va detto poi che il compito dell’architetto può essere inteso in vario modo: può consistere in poco più di un aiuto a qualcuno per sistemare un appartamento, può essere una collaborazione, una consulenza a qualcun altro intento a realizzare il suo habitat, oppure può risolversi con la predisposizione di un alloggio completo di tutto punto per un destinatario che desidera solo prenderne possesso. Ma soprattutto, quando diciamo che l’intercessione dell’architettura – ma di quale architettura – è imprescindibile per configurare l’abitare dell’uomo non ci limitiamo con ciò a intendere soltanto l’aspetto sedentario, stanziale dell’uomo e la sua azione edificatoria: il costruire, il coltivare, l’uso di certe tecniche, ecc. Con la parola ‘architettura’ vogliamo qui intendere realmente la modalità con cui l’uomo abita il mondo in quanto essere vivente. Dunque, che si muova o no l’uomo, sempre, abita e così seguendo un punto di vista biopolitico si presuppone che il mondo sia continuamente modificato dall’abitare umano e, potremmo dire, dagli esseri viventi in generale: con delle importanti conseguenze. Negli ultimi tempi infatti una nuova preoccupazione interviene a rendere ancor più problematico Abitare il costruito. Il quadro dei riferimenti si è modificato: alla passione per realizzare modi di costruire adatti alle esigenze più proprie dell’uomo è subentrato un altro pathos. L’opinione pubblica, e non soltanto la solita cerchia di intellettuali, è attraversata da una nuova inquietudine, è in preda ad un’angoscia inedita circa le sorti del pianeta, la qual cosa mette in dubbio ancora una volta la legittimità del nostro modo di costruire. Si è diffusa l’idea che, a causa del nostro modo di abitare, l’impronta dell’uomo sulla terra abbia assunto caratteri distruttivi tali da mettere in forse la stessa sopravvivenza del pianeta. Per l’architettura l’accusa principale allora diventa non tanto il fatto di non corrispondere abbastanza alle esigenze dell’abitante insediato quanto di trascurare e infine di distruggere l’’abitato’, la cosa dell’abitare, qualcosa che non è soltanto il costruito ma l’insieme del creato. Si comprende come nella percezione della totale simultaneità di abitare e costruire la parte edilizia in senso stretto finisca per rappresentare soltanto una porzione del nostro modo di porre la questione dell’abitare. Per continuare l’argomentazione appena menzionata, si deve intendere per ‘abitato’ ‘il mondo in quanto ospita degli esseri viventi’, e non si può immaginare che per l’uomo esista un luogo del non abitare prima di entrare in possesso di una casa. Per abitare non occorre essere introdotti nell’architettura in quanto riteniamo che gli esseri umani non possano esistere al di fuori dell’’abitato’ se intendiamo quest’ultimo come la condizione imprescindibile della vita di ogni essere vivente nel mondo. Dunque le affermazioni di Le Corbusier poste in esergo del libro: ‘gli uomini abitano male ’ , potrebbero essere valide se intese come: ‘gli uomini costruiscono male le loro abitazioni’.

Roberto Bianchi, Enrico Garlaschelli, Abitare il costruito. Riflessioni di architettura e filosofia sul tempo presente

Le proprietà della resilienza

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in Lotus International n. 155 , 2014

Secondo Richard Sennett per la realizzazione di una città aperta bisogna puntare alla creazione di confini ambigui tra le diverse parti della città, generando forme incomplete negli edifici e pianificando universi narrativi incompiuti. Nel prendere in esame i confini ambigui Sennett cita il biologo Stephen Jay Gould e la sua distinzione nelle ecologie naturali tra due tipi di confini: limiti e bordi. Il limite è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. Sui bordi, gli organismi diventano addirittura maggiormente interattivi, proprio per l’incontro di diverse specie e condizioni fisiche; per esempio, «dove la sponda del lago incontra la terraferma si crea una zona attiva di scambio per gli organismi, che trovano e si nutrono di altri organismi». Potendo andare oltre l’analisi biologica sarebbe interessante verificare l’idea dei bordi interattivi di Stephen Gould in alcune situazioni estreme quando, ad esempio, un’immensa onda oceanica assale la terraferma come nel caso degli tsunami. Non possiamo esimerci dal far scorrere dinnanzi a noi le immagini dei territori colpiti da tsunami, delle rive di fiumi che rompono gli argini causando inondazioni, dei confini di regioni colpite da alluvioni o da uragani tipo Katrina o Sandy, cui vanno aggiunti i confini nei quali si cerca di contenere i disastri ecologici prodotti dall’uomo (tipo l’Oil disaster del 2010 nel golfo del Messico), ecc. Le iniziative per correre ai ripari e soprattutto per predisporre i sistemi dotati della flessibilità sufficiente a difendere gli ecosistemi e assistere la rinascita degli insediamenti sono imperniate quasi sempre sull’idea di preservare il bordo interattivo di un litorale (modello alla Gould), eventualmente di migliorarlo mediante la progettazione di un landscape costiero in grado di attuare le strategie di mediazione tra le forze della terra e dell’oceano (in Giappone, Filippine, Cile, Olanda, USA, ecc.). Si tratta certamente del superamento della nota pratica di edificare barriere difensive atte a stabilire un limite, una separazione netta tra due elementi – di solito tra la terraferma e l’acqua – come il molo, la “palazzata”, il lungomare, il lungofiume di una città, con quei manufatti robusti adottati dalle città europee sino a tutto il Novecento. Ora questo modello sembra superato e gli insediamenti costieri, e soprattutto le grandi metropoli affacciate sul mare, cercano di dotarsi di un nuovo waterfront dove il confine è un bordo interattivo. Lo fanno ristrutturando dei porti, trasformando fasce urbane retrostanti, introducendo parchi costieri, ecc. il cui effetto è di inserire una struttura resiliente, con le caratteristiche di quei confini ambigui, dalle forme incomplete ed evolutive, descritti da Sennett. La parola “resilienza” è usata inizialmente in ingegneria per indicare la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Così, per analogia, in campo psicologico la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile. Etimologicamente “resilienza” viene fatta derivare dal latino resalio, iterativo di salio che in una delle sue accezioni originali indicava l’azione di risalire sulla barca capovolta dalle onde del mare. La parola resilienza, invocata come rimedio toccasana nelle recenti crisi economiche, interpretata in sociologia come arte della mediazione dei conflitti e dunque come resilienza sociale in situazioni segnate da sfide difficili, è ora presa in grande considerazione anche nel campo dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggismo essendo diventata uno degli obiettivi preminenti nelle operazioni messe in campo dopo i drammatici eventi naturali prodotti soprattutto dall’azione dell’acqua. Una protagonista che rievoca diluvi, cataclismi e altre antichissime sciagure dell’umanità e che finisce per avere una relazione misteriosa con l’etimologia della parola stessa “resilienza”. Ai fini del nostro argomento per resilienza dobbiamo intendere la scienza, meglio l’arte, o meglio ancora la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti: la capacità di un insediamento, di un’iniziativa o di una persona di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale di fronte a una drastica modificazione delle circostanze. Questa precisazione è necessaria per non confondere la novità di questa ricerca della flessibilità, la sua apertura al futuro, con l’aspirazione conservatrice a tornare alla condizione precedente. Insomma la resilienza non è solo una forma di resistenza di fronte alla minaccia di rotture drammatiche e neppure, al contrario, una riedizione della distruzione creatrice alla Schumpeter, ma un’arte di vincere in un modo diverso che l’Occidente, abituato a costruire limiti invalicabili per contrastare le sue minacce, sta scoprendo, ad esempio, cercando di introdurre dei bordi interattivi proprio sui confini maggiormente segnati da un disastro. La locuzione latina Frangar, non flectar, tradotta letteralmente, significa «mi spezzerò ma non mi piegherò» e nella traduzione italiana è citata spesso come «mi spezzo ma non mi piego». È usata come motto gentilizio per indicare orgogliosamente un’integrità morale che non cede davanti a nessuna minaccia o pericolo. A volte, come nel nostro caso, è usata con significato opposto «mi piego ma non mi spezzo» a indicare un processo di adattamento di fronte a eventi negativi come nel caso della resilienza la quale non coincide neppure con la robustezza, che di per sé può essere fragile. Con questa parola si sottolinea piuttosto l’invenzione e lo sfruttamento delle capacità plastiche di un sistema la cui ripresa non ha l’obiettivo di perseguire un ritorno allo stato iniziale, come nel caso di un restauro del tipo «com’era dov’era», e neppure di creare soluzioni definitive quanto, come suggerisce Sennett, di trovare soluzioni aperte pianificando universi narrativi “incompiuti”. La resilienza biologica e la sostenibilità richiedono la capacità di durare, di adattarsi, e di mantenere una stabilità dinamica a fronte di ambienti caotici dovendo sempre più spesso fronteggiare calamità legate all’azione di agenti naturali: in questa categoria rientrano i fenomeni conseguenti ai processi della dinamica fluviale (piene e alluvioni), della dinamica dei versanti (erosioni e frane) e della dinamica dei litorali (variazioni delle linee di costa). Si tratta di processi naturali che modificano in continuazione le forme della superficie terrestre: fanno parte del normale gioco delle forze della natura e agirebbero anche senza la presenza dell’uomo. Una predisposizione all’atteggiamento resiliente da parte delle culture dell’estremo oriente si trova nel principio taoista della cedevolezza. Se si pensa alle tecniche di combattimento a corpo libero e alle strategie di cedimenti applicata nel Wing Chun e la virtù che rende quasi unico questo stile vediamo proprio nella sua capacità di cedere e, adattandosi immediatamente alla “forma” del combattimento, di utilizzare a proprio vantaggio tutte le forze che si vengono a creare in un ravvicinato campo di sinergie fulminee fra due avversari. Se poi analizziamo i testi dell’antica tradizione del Taoismo cinese scopriamo brani utili per comprendere l’origine delle reazioni “resilienti” delle popolazioni giapponesi di fronte allo tsunami. In altri termini il Tao indica che l’atteggiamento dell’acqua è quello dell’adattamento, essa prende la forma del contenitore che la limita, nel suo scorrere non evita nulla, è un elemento incomprimibile. Un altro brano richiama il principio di “cedevolezza” taoista: «l’uomo nasce molle e debole e muore rigido e duro. Le piante nascono molli e muoiono secche. Per questo il rigido e duro appartiene alla morte, il molle e il debole appartiene alla vita». Non è un caso che la metafora naturalistica ricorrente nel taoismo sia l’immagine dell’acqua, elemento tenace, ma nel contempo massimamente duttile. L’azione dell’acqua diviene dunque modello per l’azione dell’uomo: resistere a ogni ostacolo senza spezzarsi; vincere senza contendere, scorrere senza esaurirsi. Per questo motivo la resilienza non coincide con la robustezza, che, come abbiamo visto, può essere fragile. Il principio di cedevolezza taoista presuppone una confidenza con la natura, sembra un metodo per rispondere ai drammatici eventi d’acqua, anche se le popolazioni del Giappone hanno mostrato di saper affrontare con altrettanto spirito di adattamento eventi drammatici di terra come incendi o terremoti. Per ora possiamo notare il fervore con cui sono elaborati piani e progetti di paesaggio impostati sui nuovi criteri della resilienza in risposta a eventi naturali drammatici come inondazioni, alluvioni, uragani, ecc. Dopo queste esperienze possiamo riguardare con un occhio diverso la città stessa, intendo l’insediamento umano storico per eccellenza, e riconsiderare il senso della sua durata e capacità di trasformarsi. Tale capacità non riguarda naturalmente ogni tipo di insediamento. Ad esempio ne restano esclusi gli insediamenti di supporto ad aree industriali, militari, ecc. cui dobbiamo aggiungere i numerosissimi insediamenti monofunzionali come quartieri d’abitazione, comunità immobiliari recintate che, per confermare il nostro argomento, sono strutture robuste ma fragili destinate a cedere, come altre infrastrutture difensive, di fronte alla pressione imprevista di un agente esterno. Di un principio di resilienza attivo al contrario si avvalgono le strutture generative fornite di una vitalità interna come le città, una vitalità quella delle città non esaurita dalla costituzione materiale della loro sostanza edilizia per la cui difesa il tradizionale sistema delle mura ha avuto un ruolo sostanzialmente secondario nei secoli passati. L’appartenere della città, più dell’architettura, ai tempi della lunga durata è dovuto alle incredibili capacità della città di trasformarsi in continuazione rinnovando di volta in volta il senso della propria identità, secondo un principio di resilienza. Superando ogni disavventura la città della storia, con la testimonianza della sua lunga durata, mostra una capacità metamorfica di adattarsi ai cambiamenti unitamente alla capacità di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale anche di fronte alle più drastiche modificazioni delle circostanze. Dunque la sfida dei nuovi insediamenti sarà di possedere quei caratteri di “scioltezza strategica” che sa coniugare la fluidità di strategie con la fissazione di scopi e di valori sapendo che molti degli aspetti della resilienza sono legati a uno specifico contesto. Le città restano il sistema resiliente per eccellenza, hanno avuto ragione delle catastrofi in virtù di loro fattori peculiari come possesso di strutture, elaborazione di sistemi appropriati e soprattutto contando su mentalità e valori condivisi. Bisogna ammettere che le città, gli insediamenti urbani, hanno mostrato in diversi momenti della loro storia anche notevoli capacità di scomposizione e di ricomposizione, discutendo e negoziando di volta in volta il senso dei confini non solo con l’esterno, ma anche tra quartieri, tra gruppi sociali, etnici e religiosi, capacità necessarie per metabolizzare i processi di trasformazione. La mancanza di un principio di “cedevolezza” porta anche la città alla sconfitta, al venir meno di questo principio la città finisce per seccare e morire. In ogni caso, per ora, non è da escludere che dai progetti più interessanti scaturiti in risposta ai recenti eventi drammatici naturali possa nascere un processo di rigenerazione urbana e sociale a conferma delle speranze riposte nella nuova mentalità “resiliente”.

Legacy. Opere e musei

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in Lotus International n. 154 , 2014

L’idea di trasferire la michelangiolesca Pietà Rondanini dal museo del Castello Sforzesco di Milano in un altro luogo ha suscitato molte perplessità e una certa apprensione data la posta in gioco. La scultura cui Michelangelo diede l’ultimo tocco nel febbraio del 1564 poco prima della sua morte, fu inventariata come «statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite». Poi l’opera fu acquistata nel 1744 dai marchesi Rondanini, da cui il nome, e all’inizio del Novecento finì dimenticata tra stracci e rifiuti nel cortile di un palazzo prima di essere riconosciuta e acquisita nel 1952 dal Comune di Milano per le Raccolte Civiche del Castello. Gli architetti BBPR che in quel tempo stavano realizzando il museo del Castello la posero a conclusione del percorso museografico da essi ideato cercando di allestire uno spazio all’altezza del capolavoro. Tuttavia, poiché per corrispondere alle odierne esigenze di valorizzazione della Pietà è previsto un trasferimento dell’opera che finirebbe per alterare l’allestimento del museo del Castello, divenuto esso stesso storico, la disputa si è incentrata nella contrapposizione tra l’allestimento e la statua. In effetti, la Pietà, essendo precluso ogni movimento, rimane nella nicchia del museo del castello e negli ultimi tempi è stata sottoposta solamente a verifiche, sollecitazioni, dislocazioni virtuali nei disegni architettonici del workshop del 1998 o nelle prove all’Ospedale del Castello condotte nel 2013 impiegando un calco. Per il dibattito in corso sui criteri espositivi museali la vicenda è molto interessante poiché gli effetti di “apertura” sull’opera michelangiolesca prodotti da queste azioni la arricchiscono di interpretazioni, senza considerare la sua attuale collocazione museografica. Ad esempio nella sua proposta del 1998 Álvaro Siza sottolinea la capacità dell’opera di costituirsi essa stessa come “luogo”, quasi ne scaturisca una spazialità cui basti far largo e dove non sono ammesse mediazioni tra opera e fruitore. Se ne deduce che per via della sua prodigiosa facoltà effusiva la Pietà potrebbe tollerare dei trasferimenti, purché sia garantito il suo magico effetto auratico. L’altra notevole indicazione proveniente dai bellissimi disegni di Siza riguarda l’assoluta individualità dell’opera, l’impossibilità di affiancarla ad altre opere come del resto avevano bene intuito i BBPR. La visita all’antica Infermeria spagnola del 1576 con il calco solitario della Pietà ivi installato sperimentalmente produce un’altra speciale esperienza emotiva. Gli effetti di rimando dalla stratigrafia dei pavimenti esistenti, dalle pareti, dai soffitti sono impressionanti, e non solo a causa dell’assonanza col non finito michelangiolesco delle numerose tracce presenti in un palinsesto tormentato, ma anche per il pathos che emana dalla sala dell’Infermeria, coeva alla Pietà, fondata per il ricovero dei castellani infetti da peste, con i suoi segni della sofferenza e della fede. Nelle intenzioni espresse nel 2013 dall’allora assessore alla cultura Stefano Boeri doveva essere un luogo di esposizione, studio, documentazione, dove la Pietà potesse sprigionare per intero la sua potenza per un grande pubblico di visitatori e appassionati. Eppure il “degrado” di un luogo non ancora restaurato, con i nitrati, i solfati, le ritenzioni di umidità, le ritenzioni sa- line degli intonaci, crea un’atmosfera incomparabile per capire certi aspetti tragici della Pietà, il suo dolore, al punto che sarebbe auspicabile conservare la scena, poterla visitare, sia pure lasciandovi soltanto un calco. L’ubicazione giusta di un’opera e la sua veridicità sono materia di antiche controversie, basti pensare al costume romano di realizzare copie delle composizioni greche più celebri, e forse è giunto il momento di iniziare a riconsiderare i criteri di autenticità di un’opera, osservarne da vicino le convenzioni fondanti, affrontare lo sviluppo storico del concetto, il senso della generazione gerarchica delle diverse dimensioni della realtà artistica. Pur senza nulla concedere ad atteggiamenti neoavanguardistici possiamo riflettere in modo utile per mettere in questione le gerarchie estetiche, sul fatto che oggi si espongono, ad esempio nei musei d’arte moderna, tanto delle opere “riproducibili” che opere “originali”. Ci chiediamo se è possibile includere nel repertorio delle “opere moderne” un calco della Pietà così come un Clone delle Nozze di Cana di Paolo Veronese al refettorio palladiano di San Giorgio Maggiore di Venezia. Una visita al celebre refettorio veneziano, memori di un certo fastidio provato in precedenti sopralluoghi a causa delle manchevolezze dello spazio architettonico, vittima di una spoliazione operata con la violenza e l’inganno, ci fa incontrare con gioia il clone del Veronese. La meraviglia nell’avvicinarsi alla “crosta” dell’immenso telero supera ogni altra considerazione e, pur essendo informati della sua costituzione artificiale, non ci arrestiamo di fronte all’“inganno” che sta di fronte a noi. Nel settembre 2007, a Venezia è accaduto un evento straordinario. Dopo 210 anni di assenza, le Nozze di Cana “sono tornate” dal museo del Louvre nella loro sede originaria nel Cenacolo Palladiano dell’isola di San Giorgio Maggiore grazie alla creazione di un “secondo originale”, ossia un fac-simile in scala 1:1 ottenuto con le più sofisticate tecniche di riproduzione e realizzato con le tecnologie sviluppate da Adam Lowe, artista britannico fondatore dell’atelier Factum Arte, laboratorio all’avanguardia nella ricostruzione e riproduzione di opere d’arte. Mentre a Venezia si celebra lo shock estetico dovuto alla ricostruzione “dov’era e com’era” che organizza il ritorno “a casa” di una creatura con le fattezze dell’originale, in altre circostanze la rivitalizzazione dell’opera avviene agendo per modificare i piani di lettura. In questi casi i metodi interpretativi dell’arte, nelle mani “creative” di critici, artisti, registi teatrali e cinematografici, vengono usati per “aprire” l’opera a nuove avventure rompendo con i modelli di comunicazione e i canoni espositivi consueti. A Venezia la scoperta di non trovarsi di fronte all’originale è di tipo cognitivo e non percettivo, si basa sul fatto che sappiamo già del clone, mentre al museo di Brera di Milano la scoperta dell’installazione di Ermanno Olmi per il Cristo Morto di Mantegna è di tipo percettivo e si basa sul confronto con le abitudini espositive conosciute o con il ricordo della sistemazione precedente. A Brera ci troviamo immersi nel Mantegna interpretato da un maestro del cinema come Ermanno Olmi che colloca l’opera in una sequenza spaziale coinvolgendo anche la Pietà di Giovanni Bellini mentre «la necessità di esaltarne il valore spaziale – secondo un insegnamento che Andrea Mantegna trasse da Leon Battista Alberti – ha suggerito l’eliminazione della cornice, documentata del resto solo a partire dal XVI secolo. Il Cristo Morto è così sistemato a 67 centimetri dal suolo». L’allestimento isola nell’ombra e distanzia il dipinto in accordo con la particolare forzatura prospettica e cromatica che lo caratterizza. Infatti «i dolenti raffigurati a sinistra, pensati in una visione reale in posizione inginocchiata, impongono una collocazione ribassata rispetto alle altre opere del museo». Sicuramente Olmi intende produrre un effetto di realtà e insieme un luogo di meditazione per cui il Cristo di Mantegna è meglio se esiste senza la cornice, anche se senza la cornice una raffigurazione resta una raffigurazione, e nulla mette effettivamente in questione la sua natura di oggetto immaginativo. Se vogliamo, la modernità dell’atteggiamento di Olmi è nel non riconoscere la funzione propedeutica della cornice nella ricezione della raffigurazione in quanto tale. Dunque il rimescolamento operato da Olmi agisce sulle convenzioni museografiche per introdurre un messaggio capace di agire sull’inerzia del pubblico rimanendo tuttavia al servizio dell’opera, senza rovesciare i termini del problema. Una clamorosa abrasione dell’intera “cornice” museografica, quella cornice rappresentata dall’architettura, è avvenuta a Lens nel nordest della Francia col progetto del Louvre Lens, di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (SANAA), costituito da cinque bassi edifici con un rivestimento esterno in alluminio anodizzato e vetro che si riflette e si fonde con l’ambiente sino a sparire nel paesaggio. Lo stesso effetto di sparizione si trova all’interno, come ad esempio nello spazio unitario della Grande Galerie du Temps di 3000 mq concepita come un percorso cronologico attraverso le culture artistiche dal 3500 avanti Cristo all’inizio del XIX secolo. Alla Galerie del Louvre Lens le convenzioni museografiche sono messe in discussione dalla collocazione a terra delle opere disposte quasi su un piano archeologico sul quale il pubblico circola liberamente mentre la luce filtra dalla copertura del padiglione e lo spazio si dissolve sul bordo delle pareti per effetto del riverbero del rivestimento in alluminio. In questo caso il rimescolamento delle convenzioni museografiche è opera di Célia Imrey e Tim Culbert ed è reso possibile dal fatto che l’architettura si limita a offrire un’impercettibile funzione protettiva come avviene in certi esempi di copertura delle zone archeologiche. Nel grande parterre della Galerie sembra di assistere a un omaggio allo spazio museale immaginato a suo tempo da André Malraux, il famoso Musée imaginaire, che a Lens si materializza nei principi iconologici dell’Atlante, dell’Archivio, ecc. Più precisamente nel grande parterre di Lens la forma specifica del sapere sul mondo e sulla sua storia passa attraverso il montaggio di immagini sulla scia della tradizione di Aby Warburg e di Walter Benjamin, insomma della costellazione degli autori amati da Georges Didi-Huberman. Perciò l’abbandono della parete quale luogo dedicato all’appendimento, come nel caso di Lens e, in generale, la rinuncia alla cornice, compresa quella offerta dai soliti contenitori museografici, nel mettere in discussione le classificazioni abituali, può avere tanto degli effetti di rigenerazione e di ricomposizione del patrimonio quanto produrre smarrimenti e confusioni così come avviene in tutte le fasi di reinterpretazione di una determinata organizzazione del sapere.

Architettura e Beni comuni

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in Lotus International n. 153 , 2014

La questione dei beni comuni – quei beni che non sono proprietà di nessuno, come gli ecosistemi e le risorse non riproducibili – sta assumendo un ruolo centrale nella discussione pubblica e in quel tipo di impegno politico rivolto a tutelare la terra, l’acqua, l’aria, i diritti abitativi e altre risorse primarie. Circa il coinvolgimento dell’architettura in questa discussione non occorre addentrarsi nel vivo del dibattito per constatare la sua responsabilità nel degrado ambientale e nel difetto di soluzioni abitative per le moltitudini del nuovo secolo. Essendo situata in una zona a cavallo tra sfera pubblica e privata – come del resto i beni comuni primari – l’architettura è sollecitata in questo dibattito a svolgere la sua parte a difesa di ecosistemi e risorse non riproducibili. In più essa deve onorare nel senso più profondo il suo mandato sociale con nuove soluzioni per gli insediamenti umani da considerare nel loro insieme come parte di un diritto abitativo, poiché se abbiamo un’architettura è perché l’uomo per abitare deve costruire. Oltre alle tematiche sviluppatesi attorno all’esigenza di difendere qualcosa chiamato “bene comune” dobbiamo prendere in considerazione altre formulazioni ancor più originali e problematiche poiché dalla difesa delle risorse naturali è nato l’impegno a rinegoziare, se non scardinare, i termini della classica opposizione pubblico/privato: uno smantellamento, necessario, sembrerebbe, a definire la stessa nozione di bene comune. Benché nella riflessione filosofica questo concetto sia relativo e variabile possiamo dire che i beni comuni non si identificano né col “privato”, né col “pubblico”; sono piuttosto un terzo elemento in quanto non rappresentano né il punto di vista dell’individuo, né quello dello Stato. Per di più molti si spingono a sostenere che i beni comuni, così rilevanti oggigiorno nel dibattito politico, non dovrebbero riguardare solo le componenti naturali quali gli ecosistemi e le risorse non riproducibili, ma comprendere anche le forme della conoscenza, il capitale sociale, le istituzioni, gli stessi insediamenti umani come abbiamo accennato. In ogni caso la disputa dei beni comuni con il suo appello per la salvaguardia delle risorse naturali del pianeta e per i diritti abitativi incontra le problematiche architettoniche e paesaggistiche e ha trovato un impulso ulteriore sulla spinta di argomenti attuali come il riscaldamento globale, la depauperazione di ecosistemi unici, la perdita di biodiversità, il degrado urbanistico, il proliferare degli slum e delle favelas. L’influenza di queste tematiche si può rintracciare attualmente in molte proposte architettoniche, esperimenti svolti per lo più sul margine sfumato tra pubblico e privato, individuo e società, architettura e ambiente: nell’accezione popolare è definito bene comune uno specifico bene condiviso da tutti i membri di una data comunità ed è in questo senso più localizzato che suggeriamo di leggere gli interventi urbanistico architettonici presentati in questo numero di “Lotus”.

L’approccio delle capability applicato all’architettura

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in Lotus International n. 152 , 2013

Il cosiddetto “approccio delle capacità” di Amartya Kumar Sen è un nuovo criterio valutativo del benessere effettivo delle persone e della qualità della loro vita nell’ambito di una determinata situazione socioculturale ed economica. L’approccio delle capacità di Sen va contro l’idea che la ricchezza e lo sviluppo di una comunità siano basati unicamente sulla quantità di merce e servizi prodotti e messi a disposizione dei suoi membri come viene misurato dal Pil. In estrema sintesi, Sen propone di studiare la povertà, la qualità della vita e l’eguaglianza non solo attraverso gli indicatori della disponibilità di beni materiali (ricchezza, reddito o spesa per consumi), ma principalmente analizzando la possibilità di esperienze o situazioni cui l’individuo attribuisce un valore positivo. Non basta potersi nutrire e avere una abitazione adeguata, ma occorre anche essere rispettati dai propri simili, partecipare alla vita della comunità, ecc. Si può estendere un criterio simile alla valutazione dell’architettura? Personalmente sono convinto che l’architettura, una volta riconsegnata ai suoi compiti più autentici, potrebbe essere al centro di un progetto caratterizzato da questi valori. Per farlo, anche per l’architettura non bastano i tradizionali indicatori di benessere materiale, gli apprezzamenti estetici o le analisi prestazionali del funzionalismo: per facilitare le opportunità del vivere e dell’essere stesso delle persone in un certo ambiente – tanto per incominciare – dobbiamo cercare “benessere” e “felicità” proponendo soluzioni adatte ad accrescere le potenzialità di una specifica situazione “abitativa”. Esempi del nuovo approccio della capability provengono da paesi sinora trascurati dai criteri che mettono in primo piano la ricchezza, i consumi, e simili. E anche nella nostra rivista di architettura entrano sempre più esempi dall’Africa, dalla Cina, dall’America Latina, ecc. Il motivo è che l’approccio delle capability si sta diffondendo principalmente nei paesi poveri implicati in nuovi rapidi processi di trasformazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che, passando dalle mani di giovani architetti, le nuove idee si diffondono anche nelle nostre metropoli. Per molte delle situazioni prese in esame si può riprendere l’affermazione dello stesso Sen quando afferma che: «promuovere lo sviluppo umano non significa solo soddisfare i bisogni degli esseri umani, ma significa contribuire attivamente a crearli ». Il valore aggiunto nell’approccio delle capacità e del concetto di sviluppo umano fondato su di esso consiste dunque non solo nel riconoscere l’importanza della soggettività e della sua libera espressione ma consiste anche nell’affermare il ruolo delle collettività e delle istituzioni nel concorrere a formarla. Noi non siamo autorizzati a formulare giudizi normativi sulla qualità effettiva della vita delle persone e nell’approccio delle capacità la persona viene valorizzata per le sue specifiche attività, mete, progetti, e tale ricchezza, deve essere stimolata, protetta, salvaguardata, resa effettivamente possibile. Premessa necessaria allo sviluppo umano è la formazione di un adeguato complesso di aspettative, ambizioni, desideri, valori e ideali da parte delle persone; promuovere lo sviluppo significa dunque preoccuparsi anche di contribuire alla costruzione di una soggettività in grado di definire le proprie mete e i propri valori. Visto dalla parte degli architetti, l’approccio della capability dovrebbe portare alla valorizzazione della risorsa progettuale costituita da una quantità di giovani architetti, una ricchezza inutilizzata da un sistema di produzione standardizzata non idoneo a promuovere le diverse identità. Per partecipare attivamente con interventi in grado di assecondare le capability delle varie situazioni bisogna puntare su una ridistribuzione delle risorse progettuali e sulla disponibilità a lavorare in presa diretta nelle circostanze che si presentano.

Un pensiero per l’architettura italiana

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in Lotus International n. 151 , 2012

Chi enumera gli avvenimenti senza distinguere i piccoli e i grandi, tiene conto della verità che nulla di quanto si è verificato va dato perduto per la storia, e questo vale soprattutto a favore delle cose piccole. Guardare da vicino non è vedere in piccolo, può essere necessario per non farsi sfuggire le cose, soprattutto in Italia dove c’è una determinata scala del paesaggio. I modi di fare, le strutture economiche e produttive, l’organizzazione civile e insediativa con la forma comunale ancora al centro concorrono a determinare la scala di questo paesaggio. Ciò induce a pensare chei fallimenti dei grandi interventi architettonici e urbanistici non siano casuali. Ugualmente la difficoltà di dare configurazione a grandi imprese produttive non sembra un ostacolo irrimediabile allo sviluppo del nostro paese e neppure un impedimento a pensare in grande o a sviluppare qualche importante idea architettonica. Probabilmente è difficile immaginare di salvare il mondo con dei microbi, sperare nei microrganismi che divorano le sostanze inquinanti come profetizza il biologo Craig Venter, il quale vorrebbe risolvere i problemi del pianeta manipolando minuscole forme di vita, e tuttavia vale la pena di valutare l’apporto della cultura italiana a un approccio che potremmo definire molecolare all’architettura. Guardare da vicino, come particolare modalità conoscitiva, è anche un guardare ai dettagli. Si può parlare in questo caso dell’adozione di un “paradigma indiziario” in quanto significa riflettere su una modalità conoscitiva e interpretativa che a partire da dettagli, dati marginali, indizi rivelatori permette alla ragione di conquistare una nuova leggibilità di una situazione. Il detto “Dio è nei dettagli” esprime l’idea che qualsiasi cosa uno faccia deve farla in maniera accurata, vale a dire senza tralasciare i dettagli che sono importanti. Ossia il valore, la bellezza, la positività ecc. si scoprirebbero solo o soprattutto nei dettagli delle cose. Un’altra obiezione al tentativo di indagare anche in zone trascurate sostiene che nel percorrere i margini andando per vie traverse o anche volendo prendere in esame certe inezie non si troverebbe granché. Si potrebbe controbattere a questa posizione di un nichilismo radicale dicendo che, come in filosofia, al posto di nulla “c’è qualcosa”. Una verifica di questo genere sull’architettura italiana come stiamo tentando di fare in questo fascicolo di “Lotus” dovrà valutare effettivamente se, nella progressiva scoperta del quadro di un’immagine, la percezione maturata passo dopo passo manifesti un riferimento tangibile. Vedere davvero, toccare davvero sarebbe un’esperienza di riconoscimento, e pertanto di riconoscenza per una situazione capace di restituire alla più piccola presenza reale, a ogni piccolo fatto, il suo autentico valore di apparizione. Per gli italiani, sin dai tempi di Edoardo Persico, questo vedere è legato alla fede suscitata da un intenso bisogno, ed è un modo di fornire prove indiziarie a uno sguardo passionalmente interessato alla causa dell’architettura. Anche il nostro accertamento cerca l’apertura di uno spazio per un genere di realismo che vede le cose con occhi carichi di stupore, attenti a rintracciare la pur debole energia messianica di cui ogni generazione è dotata. Questa luce messianica non permette l’assestamento in se stessa della storia che ci è dato di vivere, ma introduce in essa una sofferenza interna, un’impazienza che fa aspettare un’altra storia. Infine queste visioni particolari, reperite attraverso un’indagine attenta anche alle minime variazioni, non si limitano all’esposizione di tutte le permutazioni possibili di un dato materiale linguistico proveniente dal sistema globale della comunicazione ma registrano gli effetti particolari di queste provenienze in delle coscienze dotate di una particolare sensibilità. In alcune di queste permutazioni l’affiorare improvviso di una determinata condizione ambientale e culturale, l’emergere di una vocazione a dar forma alle cose, la spinta verso un inevitabile processo di redenzione, fa intravedere, embrionalmente, il nuovo. Oltre al modo peculiare da parte di una nuova generazione di porsi nel network geografico delle relazioni globali, anche la famosa e quasi costrittiva relazione della cultura italiana con la storia prende una nuova coloritura segnata dal senso del pericolo. Come nelle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin (1940) «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”, significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo».

Urban landscape

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in Lotus International n.150, 2012

La Tempesta è un dipinto di Giorgione databile al 1505 -1508 conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Nel 1530 il nobile veneziano Marcantonio Michiel descrisse  per primo l’opera come un “paesetto in tela con la tempesta con la cigana [zingara] e il soldato” e successivamente alcuni l’ hanno considerata il primo paesaggio della storia dell’arte occidentale. Come intendere questa affermazione? Anche nella pittura di Giotto sullo sfondo delle vicende narrate ci sono dei paesaggi veristici e non più i fondi astratti alla maniera bizantina. Ma in Giotto il soggetto della rappresentazione non sono questi fondali. Non siamo certi che Giorgione fosse consapevole del rilievo singolare assunto dal paesaggio nella Tempesta a causa del fatto che in primo piano ci sono due figure laterali, enigmatiche, forse con un senso allegorico o filosofico.

Però le misteriose figure non fiancheggiano un classico soggetto centrale, come la Madonna con Bambino tra i due Santi della Pala di Castelfranco, ne La Tempesta la parte centrale è occupata da un ‘paesaggio’, sicché  per la prima volta nell’arte occidentale il paesaggio, il suo sentimento, assurge al ruolo di protagonista e le figure vi restano ‘immerse’. E’ un organismo vivente e misterioso quello de La tempesta, costruito sulla filosofia naturale del rinascimento ( l’illusione di una prospettiva infinita e il mirabile effetto atmosferico attestano un’influenza di Leonardo), ed è questo paesaggio a trasmettere quella indicibile emozione che ha reso celebre il dipinto. Ma allora cosa intende con ‘paesetto’ il raffinato umanista Michiel, quando designa con questa parola La Tempesta di Giorgione, un olio su tela di 82×73 centimetri? Bisogna tener conto che il ‘pittoresco’ in pittura era stato espresso sino ad allora prevalentemente in delle scene urbane. Perciò non dovrebbe risultare così sorprendente il fatto di veder descritto con il termine ‘paesetto’ il primo dipinto di paesaggio dell’arte occidentale. La parola paesaggio del resto non esiste ancora (il termine deriva dalla commistione del francese paysage con l’italiano paese) e si potrebbe intendere l’espressione usata dal nobiluomo veneziano come un’approssimazione al concetto. Oppure, ‘paesetto’ (pagus, villaggio, borgo) sta ad indicare l’insediamento sullo sfondo con il ponte sul fiume?  Ovviamente il termine si riferisce a tutto il contesto in cui sono immerse le due figure del soldato e della donna, il temporale in arrivo, la tempesta, e, sempre dalle nuvole dello sfondo, il balenare di un fulmine sulla scena. Sembra ovvio pensarlo, a meno di credere per assurdo che il Michiel ritenesse le mura della città come il vero soggetto del dipinto. In ogni modo la parola ‘paesetto’ desta una certa inquietudine interpretativa foriera di conseguenze, giacché suona per noi come ‘piccolo paese’ pur essendo portati a intenderlo come ‘paesaggio’, e in seguito, come vedremo, con ulteriore derivazione e distanziamento, come ‘landscape’. Tale ambiguità dipende dal fatto che la nozione di paesaggio include le due diverse tradizioni presenti nella nostra cultura. Se nel binomio latino paese-paesaggio si tende ad unire in un’unica rappresentazione natura e artefatti e, come ne La Tempesta, elementi naturalistici quali fiume, vegetazione, nuvole, temporale, fulmine, sono raffigurati assieme ad elementi artificiali quali rovine, mura, archi, torri, colonne, ponte, resta per noi una difficoltà ad essere altrettanto inclusivi quando adottiamo l’altra nozione, quella di landscape, territorio, con il suo inevitabile orizzonte naturalistico (il termine landschap appare nel sedicesimo secolo in riferimento agli scenari naturali e rurali della pittura fiamminga ).

Così uno dei grandi giardinieri paesaggisti della storia, il francese René-Louis de Girardin, il creatore di Ermenonville, contrapponendo paese a paesaggio fissa una dualità tra cultura e natura attribuendo l’intera categoria ‘paesaggio’ alla creazione culturale distanziandola di fatto anche dalla nozione di landscape. «Lungo le grandi strade e anche nei quadri di artisti mediocri, si vede solo il paese, ma un paesaggio, una scena poetica, è una situazione scelta o creata dal gusto e dalla sensibilità». La frase ormai famosa tratta dell’opuscolo del 1777 De la composition des paysages(…) è diventata l’espressione di una dualità tra il «pays» dei geografi e dei naturalisti e il « paysage » dei pittori e dei paesaggisti. Per contro il concetto anglosassone di landscape nel prediligere il paesaggio spontaneo come il più autentico non prende in considerazione gli artifici della composizione paesaggistica creata da un gusto particolare. Il landscape anglosassone guarda con sospetto l’arte ricercata del giardino italiano o francese, tende a non considerare a sua volta come ‘artificio’ la riproduzione o la rappresentazione di una natura incontaminata e possibilmente sgombra dalla presenza di manufatti. Il giardino alla francese e il parco all’inglese sono certamente due metafore efficaci per comprendere la diversa filosofia dei due atteggiamenti contrapposti.

Per aggiungere un altro percorso a questo scenario e introdurre le tematiche dell’urban landscape’ prenderei in esame la dizione paese-paesaggio per notare come nel corso della tradizione si produca un paesaggio dell’ambiente costruito della città fatto prevalentemente di  mattoni, pietra, intonaco, legno, terra, tessuti, ecc. sino a correre l’azzardo di considerare la nozione di ‘paesaggio’ come un derivato di ‘paese’. La variante ‘urban landscape’ per parte sua tende a naturalizzare la città nella tradizione del pittoresco inglese (con la descrizione della topografia urbana come un paesaggio naturale, con il pittoresco delle scene di strada e gli incoraggiamenti di John Ruskin) confermando il dualismo or ora accennato. Nell’urban landscape la naturalizzazione avviene col cercare e nel rappresentare gli aspetti più ‘spontanei’e pittoreschi della sostanza edilizia, quasi a farne opera di natura, e nel mettere in rilievo il verde urbano sino a farne quanto possibile l’elemento preminente. In ogni modo sino ad una certa epoca possiamo affermare che esiste un paesaggio urbano con vedute sia da fuori sia da dentro la città e anche dall’interno verso l’esterno (quando si rappresenta la vista del territorio circostante dalla città). E’ espresso da secoli di vedutismo e di rappresentazioni cartografiche di varia conformazione. Lo sguardo panoramico sulla città con le vedute della sua morfologia e geografia e, da dentro, con gli scorci dell’articolazione edilizia in strade, piazze, monumenti, giardini, canali, e, ancora, con le scene dei rituali sociali e religiosi della vita cittadina, alimentano la lunga tradizione del vedutismo urbano che, sostenuto da un’enorme quantità di opere e di pubblicazioni, perdura sino alla fine dell’ottocento e prosegue tutt’oggi negli studi di iconografia urbana. In questa immensa biblioteca si possono seguire gli sviluppi, da Piranesi a Canaletto a Constable, della rappresentazione urbana, dei punti di vista e delle vedute di città (townscapes) dal secolo XIII al secolo XX. Il lavoro di vedutisti, cartografi, incisori, pittori mostra a partire dal seicento i momenti trionfali dell’abbellimento della città nell’epoca barocca e settecentesca con gli assi, le prospettive, i parchi, i giardini, i lungofiumi, ecc. dove, abbattute le mura delle città, progressivamente la visione diventa più ampia, la città sia apre al territorio e al paesaggio naturale registrando, in un’inversione del rapporto tra figura e sfondo, i modi in cui la natura entra in città.

Se prendiamo in esame il caso di Parigi assistiamo ad un vero e proprio scambio tra la materia della città e quella del paesaggio naturale. Nel settecento l’interesse per l’ambiente naturale si trasferì alla città; per l’abate Laugier che ha in mente i parchi di Le Nôtre: «Occorre considerare una città come una foresta. Le strade di quella sono i sentieri di questa; e debbono essere tracciati allo stesso modo…Applichiamo questa idea, e che il disegno dei nostri parchi serva di modello a quello delle nostre città. Non si tratta che di squadrare il terreno, e di tracciarvi sopra con lo stesso gusto sentieri che diventeranno strade e incroci che saranno le nostre piazze».

In effetti a partire dal settecento possiamo vedere una pratica in cui i giardini, i parchi ed i tracciamenti possono agire nella formazione della città successiva come una sorta di geografia volontaria, una precondizione degli assetti urbani definitivi come nel caso celebre dei Champs Elisèes. E sempre in Francia questa strategia di regolare la pianificazione urbana a partire da un piano paesistico, il cosiddetto ‘preverdissement’, o ‘prepaysagement’, viene applicata sempre più di frequente negli ultimi decenni.

Dopo il fallimento dell’ultimo  tentativo di stabilire un accordo tra l’architettura e la città con le proposte di morfologia urbana avanzate da Rossi, Aymonino, Quaroni, Huet, ecc. di nuovo, perlomeno a partire dagli anni ’80 del novecento, c’è il convincimento di dover tener  conto una volta per tutte dell’incapacità dell’architettura di fare città, di costituirsi in morfologia urbana significativa, ben consapevoli di non poter fare affidamento sulla medievale città-foresta di Laugier! Da quando è comunemente accettato che l’architettura della città si realizzi tramite  una sequela di oggetti indipendenti abbandonando definitivamente l’illusione di determinare attraverso una morfologia urbana il ground (la terra, il terreno, il suolo, la base, il fondo), l’azione del nuovo paesaggista è chiamata ad un vasto compito integrativo e ormai anche progettuale della città e non soltanto, come nella tradizione, indirizzata a configurare gli spazi complementari dei parchi e dei giardini.

Col venir meno dell’architettura della città si dissolve anche la possibilità di stabilire una relazione tra natura e insediamento come indicata dal binomio paese-paesaggio e si apre il campo alle pratiche dell’ urban landscape con la sostanza edilizia tendenzialmente ridotta a skyline, a semplice fondale della nuova scena urbana. Superata la fase del townscape e i suoi tentativi limitati di fare del pittoresco nel corpo della città esistente strada per strada, ciascuna intesa come una composizione singola, un’immagine particolare, il nuovo urban landscape si candida a modellare attraverso l’azione paesistica, ormai integrata da una componente ecologica, gli innumerevoli spazi privi di senso della città e sovente caratterizzati da un caotico intreccio di infrastrutture (vedi in Lotus 139 Olympic Sculpture Park Seattle, Washington, 2001-07 di Weiss/Manfredi), assumendo i connotati di una pratica urbanistica complessiva alla cui leadership competono ugualmente urbanisti architetti e paesaggisti. Nella dialettica tra Urbanism e Landscape si potrebbe vedere anche riproposto il dualismo della nostra cultura del paesaggio. Lo schema inteso idealmente a mettere  in primo piano il paesaggio (non più esclusivamente naturalistico e antiurbano come nella vecchia tradizione anglosassone) e a collocare sullo sfondo l’architettura promuove un’estensione della figura del paesaggista verso le competenze della pianificazione (modello Olmsted). Lo schema inteso a mettere in primo piano la città come artefatto architettonico inserito in un piano paesaggistico vede all’opera urbanisti e architetti che diventano paesaggisti e immaginano paesaggi a partire dalla sostanza edilizia della città (modello Le Corbusier). Così nell’osservare gli sviluppi attuali potremmo notare la maggiore efficacia assunta dal modello Olmsted, al momento più praticabile, e le difficoltà incombenti sul modello Le Corbusier troppo impegnativo per i parametri neoliberisti odierni (difficoltà riguardanti anche i cosiddetti ‘progetti urbani’ riguardanti le operazioni a cavallo tra urbanistica e architettura decisive per le trasformazioni della città).  Ci sono poi urbanisti che si improvvisano paesaggisti e viceversa. Ma questa è un’altra storia.

Una versione intermedia tra i due modelli indicati si trova in alcuni interventi di Manuel De Solà Morales cui si deve peraltro un notevole contributo a formulare l’idea di ‘progetto urbano’ (ostacolato, come detto, dalle difficoltà di coordinare la sostanza edilizia della città). Progetti come il Moll de La Fusta di Barcellona e la Passeggiata sull’atlantico di Oporto uniscono in un disegno urbano coerente paesaggio e infrastrutture stimolando notevoli conseguenze nel successivo sviluppo della città. La realizzazione del Moll de la Fusta del 1984 diede avvio negli anni successivi alla acquisizione di un lungo tratto della costa offrendo alla città il paesaggio di uno spazio pubblico tra i più vasti dell’Europa, mentre il progetto di Oporto la ‘Passeggiata sull’atlantico’(2001), collegando la città al mare, riunisce due tratti di costa con un nuovo parco marittimo e una grande promenade anticipando le proposte del LandscapeUrbanism’.

Una variante intermedia potrebbe essere individuata anche nella strategia diffusa in Francia di regolare la pianificazione urbana a partire da un piano paesistico, come abbiamo visto e come viene descritto da Michel Desvigne in questo numero di Lotus: una sorta di trasposizione delle procedure indicate dall’abate Laugier.

Nella recente versione denominata ‘LandscapeUrbanism’, urbanistica del paesaggio, descritta da James Corner (e Stan Allen) lo stretto legame stabilito con la cultura architettonica e urbanistica si presenta anch’esso come un superamento degli aspetti antiurbani della tradizione anglosassone. In effetti il campo operativo del ‘LandscapeUrbanism’ è nelle ampie zone marginali della città e la scelta di responsabilità per l’ambiente induce ad un approccio interdisciplinare che comprende: architettura, paesaggio, disegno urbano, landscape ecology. Una certa propensione all’indeterminatezza sottolinea come l’atteggiamento di affrontare i problemi della città contemporanea sia focalizzato sui processi più che su una predeterminazione formale. Il progetto di paesaggio così inteso incorpora le problematiche dell’ecologia e della ‘sostenibilità’ mentre l’adozione di metodi operazionali e la propensione a governare i processi traduce in termini pragmatici la componente temporale. In particolare l’attenzione per i fenomeni che si sviluppano in esteso nelle superfici topologiche orizzontali (field operations ) determina un impegno esplicito nel campo dell’urban design per una città che si espande oltre i limiti fisici e amministrativi tradizionali. Anche se i progetti più significativi del ‘Landscape Urbanism’ sono stati elaborati per parchi cittadini e la città stessa non è stata toccata che marginalmente (e in ogni caso resta notevole l’intervento della High Line di New York) il nuovo atteggiamento sembra destinato a elaborare nuove proposte in grado di gestire la densità urbana e di integrare nel paesaggio architettura e infrastrutture.

Il bello dell’agricoltura urbana

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in Lotus International n.149, 2012

L’espressione ‘agricoltura urbana’ designa il diffondersi in molte città di aree coltivate da city farmer che distribuiscono i frutti della terra da loro lavorata nelle vicinanze delle zone di produzione. Il movimento nato per rispondere ad un insieme di esigenze reali è diventato un fenomeno globale ed è presente in forma organizzata in diverse città: da Mumbai, a Pechino, Londra, New York, Detroit, San Paolo, Rosario, Vancouver, Tokyo, San Francisco, ecc. Il movimento dell’urban farming con la sua produzione di cibo, i suoi intenti educativi, l’idea di costruire situazioni sostenibili ha trovato stimoli per attecchire in tante città e metropoli essendo strettamente integrato con l’ecosistema urbano. Per la più parte sono i poveri e le donne che, lavorando in piccole fattorie situate in localizzazioni intra ed extra-urbane, alimentano questo movimento politico-culturale e con i loro ambienti agricoli  creano nuovi paesaggi interessanti da analizzare anche in chiave estetica per l’influenza che potranno avere nel paesaggismo contemporaneo. Il fenomeno potrebbe avere delle ripercussioni sulle convenzioni visive dell’ambiente urbano e periurbano e finanche agire su comportamenti e stili di vita dei cittadini qualora si sviluppasse a scala maggiore. In effetti si possono vedere i primi esiti di questo fenomeno nell’osservare come alcuni cittadini si sforzino di recuperare il senso del ciclo giorno/notte, dei ritmi stagionali. Da qui può nascere la felice scoperta  che anche l’ambiente urbano può essere partecipe dei cicli naturali tipo neve-pioggia-sole, primavera-estate autunno-inverno, e altro ancora. Insomma con l’agricoltura urbana si ritornerebbe a vivere, ma in maniera consapevole, riflessiva ed estetica, ciò che è stato presente nel mondo contadino ma in modo irriflesso, abitudinario e al di fuori di una vera consapevolezza estetica. Da quando il mondo contadino è scomparso quasi del tutto nei nostri paesi avanzati, sostituito da una industria agricola pervasiva che ha lasciato solo qualche residuo dei vecchi ambienti agricoli e delle vecchie usanze, sembra spetti alla città, paradossalmente, di attrarre a sé qualcosa di quel mondo e così talvolta si possono vedere a Milano degli stormi di uccelli prendere possesso di certi grandi alberi sopravvissuti ormai soltanto nei parchi cittadini. L’orizzonte paesaggistico in cui si muove questa nota stimola delle considerazioni particolari sul ruolo dell’agricoltura urbana nel dare risposta ad un bisogno che sarebbe stato trascurato dai programmi di landscaping portati avanti dai paesaggisti negli ultimi decenni. Ad esempio la nuova tendenza georgofila potrebbe valere come compensazione nei confronti delle correnti troppo estetizzanti del paesaggismo contemporaneo con il loro trattamento puramente pittorico di ambienti che chiedono soltanto di essere visti. Chiamata in causa a risolvere i problemi particolari che affliggono la produzione della località in un mondo deterritorializzato, l’arte del paesaggista, lasciata a sé, anche se ispirata dalle immagini e dai pattern del paesaggio agricolo, non poteva che mettere in scena dei simulacri con l’evocazione delle varie tecniche della produzione di località: l’organizzazione dei sentieri e dei passaggi, la creazione o lo smantellamento dei campi e degli orti, le cerimonie di nominazione, la mappatura simbolica degli spazi di transumanza e dei terreni di caccia, in uno scenario ovviamente privo dei corpi sociali degli attori corrispondenti alle funzioni evocate. Insomma al paesaggista è venuto a mancare il vicinato, vale a dire una forma sociale effettivamente esistente in cui la località, come dimensione o valore, si realizzasse.

Comunità di vicinato legate a forme intensive di agricoltura urbana erano presenti sin nelle civiltà più antiche più ‘ecologiche’ delle nostre e non sorprende che qualcuno pensi alle attuali coltivazioni biointensive urbane come a un ‘Farmaco’ in grado di creare nuove comunità di vicinato, di concorrere al risparmio energetico e di favorire la sostenibilità ambientale. Se nell’ottocento con lo sviluppo del capitalismo industriale fu individuata nella separazione fra città e campagna la prima causa della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, l’attuale agricoltura urbana con la sua manualità può fungere da lenitivo per quella storica contrapposizione. Nondimeno tale contrapposizione viene nuovamente evocata nell’espressione ‘Agricoltura urbana’ dal momento che ‘città’ e ‘campagna’ con le loro contraddizioni fungono tuttora da articolazioni basilari dell’insediamento umano. Perciò la locuzione  suona come un ossimoro, come, tanto per fare un esempio, «Paradiso infernal, celeste inferno», adottato da Giovan Battista Marino per definire l’Amore nel suo ’Adone (1623). Del resto la figura dell’ossimoro, apprendiamo da Jacques Derrida, è intrinseca allo stesso significato del temine greco Pharmacon che è al tempo stesso il rimedio e il veleno, ciò che restituisce la salute e insieme reca la malattia e la morte, proprio come due sono le facce in cui nel tempo si è sdoppiato Amore, che è sia dotato di vista lungimirante, sia cieco, sia sacro, sia profano. In effetti se si traduce pharmakon con “rimedio”, “medicamento terapeutico”, si sottolinea la valenza razionale, scientifica del termine, finendo col sottovalutare la componente magica, la potenza occulta incontrollabile peculiare degli incantesimi e delle stregonerie, di cui non si possono prevedere fino in fondo le conseguenze perché ha l’effetto di un sortilegio capace di ingenerare torpore, narcosi, paralisi letale. Per parte sua l’agricoltura urbana potrebbe avere anche delle conseguenze estetiche oltre che terapeutiche sulle città, e produrre un riequilibrio nei confronti degli aspetti meramente decorativi del verde urbano.

Certamente la svolta che ha portato dall’idea di un ’Giardino Planetario’ alla maniera di Gilles Clement, avanzata nella celebre mostra del Jardin Planétaire alla Grand Halle de la Villette (Parigi 1999), all’idea di un ‘Orto Planetario’ implicita nella nuova tendenza georgofila, preconizzata inizialmente anche come filosofia di fondo per l’Expo di Milano del 2015, comporta la scelta per una opzione umanistica a favore della coltivazione, rigettando, di fatto, le posizioni più radicali della deep ecology che come si sa ritengono il coltivare un’indebita intrusione antropocentrica nel corso degli eventi naturali. La nuova passione georgofila non ha niente a che vedere dunque con la pur affascinante idea del terzo paesaggio dello stesso Gilles Clement il quale con l’espressione “Terzo paesaggio”, indica tutti i “luoghi abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico… spazi diversi accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica. La nuova passione per il vegetable garden, per l’agricoltura urbana o periurbana, si avvale di vecchi e nuovi saperi della natura, recupera vecchie tecniche di coltivazione, vorrebbe stabilire un nuovo patto con questi stessi organismi adattandoli ad una botanica urbana, selezionarli, raggrupparli, averli sotto casa, coltivarli, riceverne dei frutti e, non da ultimo, riprodurre un certo tipo di comunità attorno a questi stessi fatti. Pur permanendo in città, o proprio per questo, vorrebbe mettere in atto particolari codici estetici e comportamentali in modo da produrre vicinato valorizzando certe pratiche materiali affrontando la produzione di località nel panorama tendenzialmente deterritorializzato della metropoli.

Qual è il significato della frase “Dobbiamo coltivare il nostro orto” nel Candido di Voltaire? Voltaire dice che il coltivare l’orto sarebbe come “farsi gli affari propri”? C’è in questa affermazione qualcosa che riguarda la recente diffusione dell’agricoltura urbana? Voltaire, mettendo queste parole in bocca al protagonista, intende sostenere che si deve fare quanto è nelle nostre possibilità senza cedere a sogni impossibili o immaginare una realtà inesistente. Tra tanti orrori l’uomo può essere padrone del suo destino a condizione di non cedere all’illusione di teorie fallaci o di rivoluzioni utopiche che cozzano con la realtà della nostra umana natura e dei mali delle varie società costituite. Se le cose stanno così bisogna collocare il fenomeno della nuova agricoltura urbana nella narrazione della fine delle grandi illusioni?  E’ la risposta a questi anni di crisi dei paesi occidentali? Profondamente colpito dalle sue sfortunate vicende personali ugualmente ferito da avvenimenti terribili, come il terremoto di Lisbona del 1755 che aveva distrutto la città, causato migliaia di morti e incrinato la sua fede nella Provvidenza, Voltaire scrive Candido sotto l’influsso del pessimismo del momento. Solo alla fine del racconto il filosofo si abbandona alla speranza contenuta nella celebre frase “il faut cultiver notre jardin” (dobbiamo coltivare il nostro orto).

Di nuovo, nel fenomeno attuale di coltivazione del proprio orto, vi è l’accentuazione della dimensione collettiva, comunitaria e anche la richiesta di non starsene confinati ai margini della periferia urbana come nella tradizione degli orticelli urbani del secolo scorso ma di vedere con orgoglio queste attività addirittura come un contributo alla salvaguardia del pianeta.

Coltivare il proprio orto rappresenterebbe un fenomeno politico di dissidenza per chi cerca di salvare il mondo mettendosi in difesa del cibo, in un momento di drammatica oscillazione tra bulimia e anoressia, ma di nuovo in questa discussione fa capolino la figura dell’ossimoro come nel titolo dell’ultimo libro di Serge Latouche ‘Per un’abbondanza frugale’ , ‘un’accesa requisitoria contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica’.

Dunque qualcuno arriva a pensare che nella nostra epoca cucinare con i semplici prodotti della natura, coltivarne una parte possa essere guardato come un atto sovversivo.  Quando nel 1969 il Manifesto del Fronte di Liberazione del contadino impazzito del  poeta, scrittore, contadino Wendell Berry  uscì sul Whole Earth Cathalog, la madre di tutte le riviste alternative, fu subito evidente che conteneva quanto di meglio era uscito dalla rivolta studentesca americana e dall’ipotesi di un ritorno alla natura abbandonando la società dei consumi.

Da allora sono passati 40 anni e il suo messaggio ecologista è diventato mitico, ma in realtà non sappiamo se dobbiamo rispondere agli eccessi del consumismo o alle nuove carenze prodotte dalla grave crisi economica in corso affidandoci a fonti energetiche alternative. Certamente la nuova agricoltura urbana ha un valore simbolico e terapeutico, può aiutarci a modificare tanti punti di vista sul mondo, ma dobbiamo convincerci che non potremo far troppo conto sulla sua capacità produttiva.

E però del giardino la nuova agricoltura urbana vuole mantenere sicuramente il carattere di un luogo di compensazione pur con l’aggiunta di un pathos particolare dovuto alla scoperta che l’orto oltre ad avere una forma produce anche dei frutti. Chi in Italia non ammira i paesaggi agricoli presenti nella grande tradizione della pittura, pittura che ha costruito la base dell’idea del paesaggio italiano? La coltivazione del verde urbano sembra un proposito esaltante e verosimilmente un terreno di cultura anche estetico per sperimentare nuove forme di convivenza e di fertilità dei rapporti comunitari e non è detto che questo non possa avere delle conseguenze. Sarà interessante vedere nelle nostre città quanti orti cresceranno nelle zone trascurate e se qualcuno inizierà a rendere coltivabili i giardini. L’apprezzamento estetico dell’orto presuppone uno slittamento della sensibilità dall’ambito visivo e psichico del recente paesaggismo all’ambito fisiologico ed empirico  più proprio dell’ habitat agreste, dove il metter mano, ma anche assaporare, mangiare, nutrirsi, faticare, sporcarsi, ecc. implica un’apertura alla contaminazione tra sfere diverse del sensibile. Infine,  perché no? ‘Coltivare il nostro orto’ può essere un pharmakon , un “rimedio” un medicamento terapeutico interessante dal quale non si può escludere l’insorgere di qualcosa di cui non si possono prevedere fino in fondo le conseguenze.

Architecture meet People

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in Lotus International n.145, 2011

Il referente come elemento del mondo reale o concetto cui un’espressione formale fa riferimento sta riapparendo nei contenuti dell’architettura. La nuova tendenza – fare cose utili e significative con pochi mezzi – è sicuramente caratterizzata da un lavoro attento alle esigenze delle persone, alle abitudini di una comunità, alle condizioni materiali di una situazione, ed è un lavoro di una nuova generazione di architetti, planners e paesaggisti che ha prodotto esempi contraddistinti dall’impiego consapevole di approcci alla prefabbricazione, alle tecnologie, al design modulare ecc. con una chiara attitudine politica, sociale, ma anche ecologica, economica ed estetica. Per ora questo nuovo dinamismo trova i suoi ambiti principali d’azione in zone rurali o periurbane, in aree povere e principalmente in alcuni paesi: dell’Estremo oriente, dell’Africa e dell’America latina. Lotus se ne sta occupando da tempo (vedi il progetto di Diébédo Francis Kéré, in cui l’intera comunità ha partecipato alla costruzione di una scuola in Burkina Faso; la sensibilizzazione della comunità in un processo culturale, nel Museum of Struggle in Sudafrica progettato da Noero Wolff, le case nella banlieue parigina di Lacaton e Vassal, gli interventi in Alabama di Rural Studio.….). Un caso limite è la nuova relazione che gli architetti cercano di stabilire con gli insediamenti marginali, come le favelas, che erano visti, o meglio non visti, soltanto come ambiti problematici di cui si andava sottolineando l’assenza di regole, la povertà, l’anarchia, la mancanza di comfort e di servizi. La svolta recente nell’approccio a queste realtà è incentrata nel riconoscere in questi ambiti la fonte di nuove esperienze, anche estetiche, se non di apprendimento e addirittura di riflessione sulle teorie dell’insediamento e nello scoprire l’occasione per stipulare degli accordi inediti frutto dell’incontro tra la popolazione e gli attori degli interventi. E’ da notare come la novità di queste tendenze  consista dopotutto nel sollecitare l’architettura a riprendere un compito abbastanza ovvio di strumento per migliorare le condizioni sociali, politiche ed economiche di un luogo sia con il coinvolgimento degli interessati nel processo progettuale e costruttivo, sia con la sensibilizzazione della comunità in un processo culturale emancipativo. Una sottolineatura scontata per l’architettura se non si tenesse conto dei clamori e del genere di performances  architettoniche cui la comunità degli architetti e il pubblico dei media sono stati sottoposti negli ultimi decenni.

Credo che molti architetti dei nostri paesi affluenti vedranno con un sospiro di sollievo la bellezza di questi edifici volti a soddisfare qualche bisogno, potranno persino maturare il desiderio romantico di trovarsi in posti dove il lavoro sembra avere un senso e, in una sorta di capovolgimento dei valori stabiliti, se interrogati, potrebbero dire di preferire i rapporti complicati con una comunità africana piuttosto che con le richieste di un loro avido developer. Circa le manifestazioni del nuovo atteggiamento e per evitare l’insorgere di equivoci in considerazione di certi luoghi comuni su molti paesi ‘esotici’ in cui il fenomeno si sta diffondendo, occorre precisare innanzitutto quello che esso non è. Innanzitutto non va rubricato come “architettura vernacolare’ alla maniera di Paul Oliver che la definisce semplicemente come architettura ‘del popolo’ e non fatta ‘per’ il popolo da professionisti commerciali. L’idea di ‘architettura senza architetti’ è stata diffusa da Bernard Rudofsky (1905 – 1988) con la mostra del 1964 al Museum of Modern Art di New York: la mostra presupponeva un approccio antropologico, un metodo etnografico nel senso classico di insieme di costumi, o di modelli di comportamento anziché, come si crede oggi dopo la critica all’etnografia classica, come una costruzione dell’antropologo e non un dato oggettivo e indipendente. Da quando l’antropologia entra nella sua fase postmoderna e decostruzionista il concetto di cultura viene definitivamente messo da parte, e il vero oggetto dell’antropologia è l’antropologo stesso, o meglio il suo io narrante e l’argomento attuale della critica alla mostra di Rudofsky è diventato quello di analizzare la scrittura e la costruzione di questo testo, le costruzioni retoriche e le strategie attuate dall’antropologo nel suo studio dove avviene la costruzione dell’altro. Nel caso di Rudofsky con finzione etnografica si intenderebbe non tanto che questa etnografia è falsa, bensì che è stata costruita, fabbricata a tavolino e come tale è parziale perché inevitabilmente basata sulla selezione e l’esclusione, tenendo conto, ad esempio, dell’influenza giovanile – per parlare della figura dell’etnografo – esercitata sul giovane studente dal viaggio nell’isola greca di Santorini in cui subì un fascino basato sull’idea che gli edifici fossero il risultato di vecchie tradizioni trasmesse di generazione in generazione senza contributo di architetti. Una fascinazione che è all’origine dell’idea dell’architettura indigena o vernacolare e del suo sviluppo ‘spontaneo’. Il fascino vernacolare dipende allora dal credere possibile il darsi del frutto spontaneo di una tradizione fuori dalla storia e dalle contraddizioni del nostro mondo sviluppato.

La nuova tendenza architettonica di cui stiamo trattando non corrisponde neppure ad un’ennesima edizione del tradizionalismo: non siamo certo di fronte ad una versione particolare del tradizionalismo anacronistico di certa architettura ‘colta’ che si offre ad una lettura contrastante le correnti dell’ architettura modernista. E neppure gli esempi della nuova tendenza andrebbero interpretati seguendo i canoni del contestualismo, così come è stato definito nei paesi europei con le sue preoccupazioni volte soprattutto alla salvaguardia di ambiti urbani e paesaggistici già costituiti. In questa nuova generazione di architetti si nota con una certa chiarezza la condizione operativa di una «postmodernità etnografica» che ci restituisce una visione meno pessimistica di un futuro collettivo, fatto di sempre più intensi scambi simbolici e contatti tra identità culturali frammentate e diverse. Questi architetti non sembrano disorientati in mezzo a tradizioni culturali disgregate o vittime di un’instabilità e di uno sradicamento che sono ormai un destino comune. Da quella che potrebbe apparire una catastrofica perdita di autenticità e purezza, emerge la possibilità di una indefinita ricomponibilità degli antichi oggetti culturali in strutture dotate di nuovo senso. Questa ripresa in chiave postmoderna e postcoloniale di un atteggiamento etnografico appare davvero notevole nell’attuale situazione del dibattito architettonico e vien da pensare con rammarico all’affrettata liquidazione all’università di Delft da parte dei giovani adepti della setta di Rem Koolhaas della figura di quell’architetto antropologo moderno che fu Aldo Van Eyck, con le sue ricerche degli strumenti più radicati nella definizione dell’uomo nel proprio ambiente, per cui ancora si illudeva di ritrovare utopisticamente nei popoli arcaici le regole dell’abitare secondo un disegno inalterabile. E’ un peccato che Van Eyck sia stato liquidato brutalmente anziché, eventualmente, ‘decostruito’. In ogni caso, per cogliere le caratteristiche del contestualismo peculiare di queste nuove architetture impegnate a migliorare dei casi singoli sembra più adatta la dizione adottata per gli interventi di certi artisti come di opere site specific.  Il prodotto architettonico, perciò, non deriva solo dalla descrizione scientifica della cultura e della società studiate dall’architetto, ma è il risultato di una “negoziazione di significati” che si svolge nelle mutevoli contingenze del lavoro sul campo, tra la personalità, il bagaglio culturale e i ruoli assunti dall’architetto e le diverse personalità e bagagli e ruoli degli interlocutori con cui egli entra in relazione.
Inoltre, a partire da questa antropologia spesso operata in prima persona dall’ ‘altro’ – molte di queste opere sono progettate da architetti locali – non possiamo più collocare questi ‘frutti impuri’ in una piena consapevolezza teorica, come parte della generale storia intellettuale della modernità, e soprattutto come produzione architettonica attraverso la quale si ristruttura la coscienza dell’Occidente. Se il neocolonialismo implicito nelle clamorose manifestazioni dell’architettura iconica e spettacolare sviluppata in varie parti del mondo per iniziativa del capitalismo transnazionale e promossa dalle ambizioni di città e paesi che gareggiano per occupare l’immaginario con edifici iconici dotati di un alto profilo figurale o gestaltico può essere inteso come ultima manifestazione dell’occidente, questi nuovi edifici, che per lo più attuano i loro programmi disponendo di risorse modeste, sono da intendere come il frutto della ricerca da parte dei nuovi architetti attivisti di un’architettura postcoloniale e come l’annuncio di una nuova fase geopolitica dell’architettura. Si tratta quasi sempre di lavori svolti da architetti poliglotti che lavorano sul posto disponendo di un bagaglio culturale raffinato, maturato anche in scuole e università di primordine del mondo occidentale, da cui si ha un trasferimento di competenze tecnologiche e culturali adatte alle situazioni incontrate che sostituiscono i vecchi criteri colonialisti basati sul trasferimento di modelli preconfezionati. La bellezza di questa architettura deve essere apprezzata anche in riferimento ai luoghi e alle persone che vediamo abitare e muoversi al suo interno: sembra una novità dopo il consumo di tante immagini di architettura che invitano alla contemplazione della pelle (skin), alle visioni notturne, al caos sublime, ecc. Pertinente allo svolgimento di questi argomenti nella 12. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia 2010 People meet in architecture è il suo titolo. Il richiamo a questa funzione essenziale dell’architettura, far incontrare la gente, è decisivo, anche se la mostra, inevitabilmente, forse, non lo svolge appieno. Resta tuttavia l’indicazione ed anche la scoperta che l’architettura del mondo è interessante e varia nel senso indicato da queste note. Della mostra di architettura della Biennale resta ancora l’impressione di una certa freschezza dovuta ai tanti spazi non occupati dallo star system, questa volta, alla sorpresa che questi vuoti dei padiglioni della Biennale sono riempiti da proposte provenienti in tempo reale da varie parti del mondo sinora relativamente inesplorate. Il limite della nuova situazione può essere intravisto in un certo moralismo, in chi avanza un’interpretazione dei risultati soltanto in chiave performativa, dal momento che bisogna pur dire che non vi è etica senza estetica e molti dei progetti di cui stiamo trattando trovano la loro verifica proprio nel dominio estetico. Ci piacciono, li condividiamo anche perché sono belli.

10/12/2010